GENOVA E LA RIFORMA FALLITA DEL 2016

I porti sono ASSET strategico nazionale, basta regionalismo. L’Autonomia fa danni

Rimane pienamente attiva quella logica che ho definito in diverse occasioni “delle Repubbliche Marinare”, tanto radicata quanto incompatibile con quella della “Repubblica Italiana”

18 giugno

18 Giu 2024 di Ennio Cascetta

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I porti sono ASSET strategico nazionale, basta regionalismo. L’Autonomia fa danni

Le vicende sulla gestione del porto di Genova, al di là dei profili penali, di competenza della magistratura; e di opportunità, di competenza di ciascuno di noi e quindi della politica, stimolano qualche riflessione sulla gestione della portualità italiana e, più in generale, sul tema della Autonomia delle Regioni, differenziata o meno che sia.

Da quanto pubblicato dalla stampa emerge con chiarezza che il sistema decisionale su materie sensibili, come la gestione delle aree e delle concessioni del più grande porto italiano, fosse interamente riconducibile ad Autorità e operatori locali, al di là delle forme con cui tale processo si articolava. Non mi sembra di aver letto, se non occasionali, rinvii alla dimensione Statale di un porto che è demanio dello Stato e si trova giustamente sulle reti Transeuropee.

Purtroppo questa tipologia di gestione dei porti italiani non sorprende affatto gli addetti ai lavori, e sono convinto che rapporti di questo tipo siano ampiamente presenti nella maggior parte di essi.

Insomma rimane pienamente attiva quella logica che ho definito in diverse occasioni “delle Repubbliche Marinare”, tanto radicata quanto incompatibile con quella della “Repubblica Italiana”, ossia la gestione strategica di uno degli asset fondamentale di un Paese come il nostro, votato all’import e all’export, oltre che alla cantieristica e a tutte le attività economiche collegate alla blue economy. Prova ne è l’iter, e il parziale fallimento, della riforma della portualità italiana che si è svolto nel 2016 sotto la guida dell’allora Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio. Quella riforma prendeva le mosse proprio dalla necessità di una integrazione sistemica della portualità nazionale che evitasse inutili duplicazioni di funzioni e investimenti, quasi sempre a carico dello Stato. Questa ottica significava ridurre le 26 Autorità portuali allora esistenti e raggrupparle in quelle che oggi sono chiamate Autorità di sistema Portuale (AdsP). La riforma prevedeva un numero ridotto di sistemi portuali, non più di otto, che raggruppassero i porti dello stesso “range” geografico ed economico, ad esempio il Tirreno settentrionale o l’Adriatico settentrionale. Questa proposta fu respinta dalla conferenza Stato-Regioni proprio perché avrebbe eliminato la corrispondenza diretta fra territorio regionale e governance della relativa AdsP per cui si dovette ripiegare su sedici AdsP, tutte strettamente regionali o addirittura sub-regionali. Quindi Genova Savona e La Spezia, ma non Livorno e così via.

L’altro tentativo che si fece per riportate a una visione nazionale fu quello della Conferenza delle AdsP, presieduta dal Ministro pro tempore nella quale dovevano trovare uniformità le principali decisioni di gestione e di investimento dei singoli porti. Nelle prime riunioni si arrivò perfino a richiedere che le proposte di investimento e di aggiudicazione delle concessioni fossero accompagnate da Piani di fattibilità tecnico-economica da inviare al Ministero e discutere in Conferenza. Anche questa parte della riforma è stata ampiamente disattesa dai governi successivi che esercitano un controllo prevalentemente formale sugli atti delle AdsP non avendo la volontà politica e, forse, le competenze per interloquire nel merito con le singole realtà locali.

Questo assetto ampiamente insoddisfacente è il risultato della riforma del Titolo V della Costituzione che vede competenze concorrenti dello Stato e delle Regioni sulle grandi reti logistiche di interesse nazionale  Per questo motivo era indispensabile il parere favorevole della Conferenza Stato-Regioni.

Una ultima riflessione si impone sulla proposta di Autonomia differenziata che, nella formulazione attuale, prevede addirittura la possibilità che le competenze in materia di reti nazionali siano trasferibili integralmente alle singole Regioni. Fra l’altro tale competenza, non essendo materia LEP, potrebbe essere trasferita immediatamente come previsto dalla norma transitoria. A quel punto le regole stesse di gestione dei singoli porti, come di tratti di autostrada e ferrovia, potrebbero essere diversi passando da una regione all’altra riproducendo, alla scala intra-nazionale, frammentazioni e inefficienze che oggi sono ampiamente presenti alla scala europea. Insomma una situazione che creerebbe ancora più confusione in un mercato come quello dei trasporti marittimi che si gioca alla scala mondiale e una ulteriore occasione di prossimità fra regolatori e regolati.

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