Alice Buzzone: con il FAR meno linguaggio tecnico, più architettura da marciapiede

Alice Buzzone (foto Daniele Raffaelli)

Alice Buzzone è la direttrice del Festival dell’architettura di Roma, FAR, ideato e realizzato dall’Ordine degli architetti PPC di Roma e Provincia. Architetto Buzzone, come è andata l’edizione 2023-2024? Ha qualche numero sulla partecipazione di pubblico?
Dalle statistiche del nostro profilo Instagram risultano 87mila profili raggiunti di cui il 70% sono under 40. Sono cresciuti anche i profili della Casa dell’Architettura e dell’Ordine degli Architetti perché abbiamo portato un pubblico differente da quello abituale. Per quanto riguarda le presenze fisiche al Festival, il primo giorno avevamo circa 700 prenotazioni, l’ultimo giorno tra le 600 e le 700 persone. Negli altri giorni le presenze sono state sempre comprese fra 150 e 200.
Lei ha detto che una delle protagoniste di FAR è l’architettura da marciapiede. Che significa?
L’architettura da marciapiede è per me quella che arriva dal coinvolgimento dei territori attraverso atti pratici come i progetti che, seppur temporanei, prendono vita veramente e costruiscono visioni, gli incontri, le mappature per ri-conoscere livelli territoriali che si evincono solo se esplorati a fondo. Tutto ciò ci consente di avere un’interazione profonda con la città, di avvicinare architetti e istituzioni, di incidere sui paesaggi quotidiani e quindi sulla vita delle persone. Ne abbiamo avuta tanta al Festival di quest’anno che è stato un luogo di fermento entusiasmante.
Come spingete i cittadini a partecipare?
Un esempio è la call “Architecture Film Festival”, concorso aperto a tutti i cittadini che vogliono parlare di architettura e raccontare brani di città con cortometraggi o video web. Le due novità di quest’anno sono che accettiamo anche materiali già pubblicati e non solo quelli inediti e che estendiamo il racconto a tutto il Lazio. Il 14 ottobre è il termine per presentare i lavori, ne sono già arrivati una decina, il 19 ottobre faremo la premiazione, al vincitore andrà un premio di duemila euro. Proietteremo tutti i contributi arrivati. La giuria sarà composta da esperti.
Ci fa un esempio di progetto concreto che abbia avvicinato la cittadinanza all’architettura?
Vogliamo rappresentare e trasmettere proprio un’architettura che esprima il più possibile concretezza: FAR richiama appunto l’idea del FARE. Un esempio di avvicinamento e ritorno al dialogo sulla città è il progetto di sistemazione dei banchi di Porta Portese condiviso con i cittadini proprio in via Ettore Rolli con le istituzioni e il progettista. Il Festival ha poi veicolato molte proposte di trasformazione dei territori anche attraverso il TOTEM URBAN CENTER.
Che cos’è?
Si tratta di una sorta di bacheca pubblica di informazione su come si trasformerà nel breve periodo il territorio, attraverso immagini molto semplici ed evocative, pochi testi. Abbiamo visto che è un dispositivo molto efficace e abbiamo molte foto che testimoniano l’interesse dei cittadini a leggere e osservare. Crediamo sia necessario coinvolgere anche accidentalmente la città, non solo nei luoghi classici deputati a questo genere di mostre e dibattiti. Di questo tipo di operazione oggi si sente molto la mancanza.
Luoghi diversi da quelli in cui ci si parla solo fra architetti ed esperti.
Io lo chiamo Festival generativo perché genera collaborazioni e attraverso queste cerca di rammagliare e includere fasce di popolazione finora escluse dalla cultura architettonica, comprese persone di buon livello culturale come gli studenti universitari. I contenuti dei workshop, in cui è stata coinvolta la comunità studentesca, sono proprio derivati da un dialogo preliminare con loro stessi, che hanno scelto di impostare un laboratorio con cose concrete da fare. Ma anche il nostro racconto della città è meno freddo, meno ibridato da contenuti tecnici. Penso che dobbiamo sempre più avere un approccio basagliano, uscire fuori dai nostri recinti istituzionali, anche fisicamente. “Roma si trasforma” è un bellissimo e promettente portale di Roma Capitale, una piattaforma che pure ha l’obiettivo di coinvolgere il cittadino. Ma dobbiamo lavorare al fianco di un supporto digitale e in evoluzione. La città è piena di fasce di popolazione anziana, di stranieri. Col covid abbiamo compreso anche che vi sono problemi di “digital divide”: se vogliamo favorire la partecipazione serve materializzarsi in luoghi non strettamente deputati alla cultura architettonica. Per questo dico che una bacheca pubblica è in questo momento utile alla stregua di un Urban Center. Ossia è “un Urban Center in piazza”, un suo importante prolungamento urbano.
Ha parlato anche di nuove alleanze per l’architettura. Che vuol dire?
La preview del Live Cinema Festival, la comunità “delle culture e delle cotture” di Multi, a cura di Slow Food e Lucy, non sono alleanze di facciata ma esprimono collaborazioni che si sono confrontate sui contenuti attraverso numerose riunioni fatte nel backstage, prima del Festival.
Ma resta qualche insegnamento o qualche proposta per migliorare la qualità dell’architettura e la città?
Un festival, per quanto sia diventato un processo annuale, è sempre un dispositivo “mobile”, che può generare però visioni concrete. Per lavorare sulla “cura”, sulla “presa in carico profonda” della città servono politiche stabili e facilmente riconoscibili dai cittadini. Da studiosa e attivista sui temi della rigenerazione, un’idea è quella di creare delle “Case di quartiere” che abbiano un carattere informale, un po’ sul modello torinese. C’è un lavoro che non possiamo deputare solo ai comitati di quartiere – ai quali comunque servirebbe appoggio in spazi fisici – che costituiscono presidi stabili del volontariato civico. Abbiamo bisogno di qualcosa di più: luoghi in cui si raccolgano e custodiscano idee, esperienze, stimoli e nuove visioni in cui diventa facile costruire reti territoriali e quindi “comunità”. L’idea di Renzo Piano dell’Architetto condotto o dell’Architetto di comunità o di quartiere sarebbe un’altra proposta utile per far crescere e accompagnare una cultura partecipativa. In Italia ci sono città più avanti come Bologna su questi temi, che lavorano da anni su un’urbanistica condivisa e dei servizi, oggi ad esempio promuove attività come gli Urban Living Lab, ha attivato una collaborazione stabile con la Fondazione per l’Innovazione Urbana. Dobbiamo fare ancora molta strada anche perché quello che appare sempre più chiaro è che la rigenerazione urbana non ha un modello unico valido ovunque e per tutti, ma è un’operazione di Urbanismo fattivo, si crea sul posto, si nutre di test empirici. La politica di quartiere che posso fare al Pigneto è molto diversa da quella che posso fare alla Bufalotta, servono metodi di azione ragionati e site specific.