EDITORIALE
Rigenerazione urbana: città sociale e impresa capace di dialogo
Diario DIAC è nato, ormai 16 mesi fa, per raccontare le trasformazioni dei territori italiani, in particolare quelle generate da progetti infrastrutturali e da progetti urbani, e le politiche che accompagnano (o frenano) queste trasformazioni. Oggi lanciamo, insieme a una nuova grafica, il “Diario della rigenerazione urbana” che, con il “Diario dei Nuovi Appalti”, costituisce un pilastro di Diario DIAC in una sorta di “Diario di diari”. Un modo, in realtà, per aggregare informazione in un mondo di disaggregazioni e per ricordare a noi stessi l’impegno alla continuità informativa su temi che si sono imposti come la “nuova centralità” in questi campi.
L’obiettivo di questa iniziativa non è però partecipare a una certa retorica della rigenerazione urbana, che si va affermando soprattutto nel linguaggio politico, con il rischio di considerare sotto questa etichetta qualunque progetto di trasformazione fisica in ambito urbano e di annacquare alcuni principi portanti che a nostro modo di vedere non possono mancare, segnando oggi una profonda discontinuità con modelli di trasformazione territoriale e urbana del passato.
Il nostro lavoro è individuare e raccontare i diversi aspetti qualificanti di una nuova generazione di progetti che stanno evidenziando come la sostenibilità ambientale, economica e sociale di una città passi per la capacità di tenere vivo o ricreare il rapporto fra i luoghi e le comunità che li abitano e li vivono. “Rigenerazione urbana è rendere abitabile un territorio”, dice Matteo Robiglio nell’intervista che potete legge in questo SPECIALE RIGENERAZIONE URBANA di oggi arrivandoci dalla homepage oppure cliccando qui. L’abitabilità diventa – o forse torna a essere – un concetto largo che guarda ben oltre quello di abitazione.
Il cuore della nostra ricerca è proprio nel rapporto rigenerato e vitale fra luogo e comunità e nelle modalità in cui si crea, si articola, si riproduce. Il progetto, quindi, che resta e anzi sempre più diventa il perno di questa operazione comlessa, non ha una mera finalità di trasformazione fisica, ma piuttosto rende la trasformazione fisica funzionale al rapporto con la comunità, alla soddisfazione delle esigenze (abitative, culturali, economiche, sociali) di una comunità, alla “liberazione” di energie sociali ed economiche rimaste bloccate nei luoghi. Siamo nel pieno della missione “crescita Italia”, alla ricerca di nuovi modelli di investimento e di crescita, ma siao anche nel pieno del goal 11 dell’Agenda 2030 dell’Onu (“Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili”), avendo scelto però un punto di vista specifico – il rapporto “vivo” fra luoghi e comunità – che esalta l’aspetto concreto di concetti come inclusività e durabilità. La rigenerazione urbana è anzitutto rigenerazione umana.
La rigenerazione umana e la città sociale assumono un ruolo determinante nelle attività economiche sottostanti al progetto, contribuendo ad accrescerne il valore. La “visione sociale” del progetto consente di dare una nuova missione a molte attività economiche che intorno al progetto ruotano, fra cui quella edilizia. L’edilizia diventa per questa via un attore sociale e ambientale, sta dentro la comunità, si mette al suo servizio e si allontana da tentazioni di speculazioni, slogan vuoti e greenwashing.
La città sociale agisce sul progetto sotto due aspetti distinti. Da una parte contribuisce a definirne gli obiettivi: pone esigenze (come abitazioni a canoni sostenibili o spazi pubblici per nuove attività) o reclama certi effetti (integrazione anziché gentrification e convivenza di vecchi e nuovi abitanti per dare spessore storico, umano e sociale al quartiere). Dall’altra parte, però, la centralità della città sociale significa che la comunità costruisce il progetto, vi partecipa come attore fondamentale. Il progetto è corale (la rubrica di Diario DIAC curata da Maria Cristina Fregni si intititola proprio Progetto corale).
La riattivazione di energie economiche e sociali, per avere successo, deve ridefinire radicalmente la vocazione di un luogo, di un territorio, di un edificio. Ha bisogno di ridefinire il rapporto fra costruire e abitare. In questo senso, la DURATA nel tempo degli effetti dell’intervento, ben oltre il tempo di un cantiere, è un risultato essenziale, è la misura del successo effettivo di un progetto.
Anche la fruibilità del bene per la comunità è un obiettivo centrale della nuova rigenerazione urbana. Per vivere, l’oggetto della trasformazione deve “parlare” alla comunità che solo per questa via lo accetta e lo valorizza. Si diffonde sempre più in alcuni committenti lungimiranti – primo fra tutti l’Agenzia del Demanio – la tendenza ad anticipare la fruibilità al momento del cantiere, attraverso il temporary use, con l’intento di avviare questo “dialogo” fra comunità e bene da subito e accrescerne la qualità nel senso dell’autenticità.
E si diffonde sempre più anche in Italia il placemaking, quell’attività che innesta nella pianificazione e gestione degli spazi un’offerta culturale e sociale capace di trasformare lo spazio fisico in un luogo significativo e vissuto dalle persone. Rende fruibile e attraente lo spazio pubblico, combinando elementi come illuminazione, paesaggio, arte e gestione delle attività, per rispondere ai bisogni e ai desideri degli abitanti e favorire il loro benessere.
Anche per queste vie, la fruibilità del bene da parte della comunità – quindi la domanda di servizi che genera – resta un parametro autentico per misurare la sostenibilità economica di un’operazione.
La nuova rigenerazione urbana implica e rende necessarie, quindi, attività e professionalità molto più ampie di un tempo, in quanto capaci di curare i diversi aspetti delle relazioni fra bene e comunità, fra comunità e bene. Riattivare le energie sociali ed economiche bloccate nei luoghi in cui si interviene richiede e comporta di utilizzare un ventaglio molto ampio di professionalità per ridefinire alla radice la vocazione di un luogo, di un territorio, di un edificio. Per ricreare il rapporto fra costruire e abitare occorrono non solo architetti, ingegneri, geometri, ma anche psicologi, sociologi, filosofi, storici, artisti di teatro e di cinema, fotografi, attori del marketing e della comunicazione social.
L’impresa di costruzioni, che spesso in passato ha avuto un ruolo di traino nelle trasformazioni urbane e territoriali, può mettere a disposizione del progetto il suo capitale di conoscenza e di lavoro che pure ha radici profonde. I fattori abilitanti perché impari a maneggiare questa dimensione sociale e ambientale del progetto sono due: deve saper evolvere il proprio know how per stare al passo con esigenze e obiettivi nuovi; deve usare il suo capitale di credibilità per favorire il dialogo con altre professionalità, per fare gioco di squadra senza il quale, ormai, non si può più vincere.
Questa è una battaglia che Diario DIAC condivide dal primo giorno con l’Ance, che, sotto la presidenza Brancaccio, ha visto per tempo le opportunità derivanti dalle dimensioni ambientali e sociali del ruolo dell’impresa di costruzioni. Serve capacità di alleanze, di dialogo, di condivisione di progetti ed esperienze con mondi diversi. Giocare in difesa e stare chiusi nelle proprie certezze non serve più a niente. Se ne parlerà molto nella tre giorni di Città nel futuro (7-9 ottobre) dove l’associazione dei costruttori esplicita questa sua nuova anima verde, non, come forse si sarebbe fatto in passato, fiutando un business e costruendo un apparato ideologico per conquistarlo, magari con una dose accattivante di greenwashing, ma mettendo al centro la conoscenza, più larga dei confini di un tempo. La regìa di Francesco Rutelli e la presenza di autorità nei loro campi come Erasmo D’Angelis e Ricky Burdett lo testimoniano.
Mi piace sempre ricordare il caso di Est(ra)moenia, l’associazione guidata da Ambrogio Prezioso che a Napoli opera tenendo insieme costruttori, imprese di servizi, realtà del terzo settore, della cultura, dell’associazionismo. E mi piace ricordare l’intervista in cui Elena De Filippo, presidente della cooperativa sociale Dedalus, (vedere qui) ci ha raccontato lo sforzo fatto anche dal mondo del terzo settore per avviare e accelerare il dialogo difficile con l’impresa. Superare resistenze ataviche e lavorare insieme è la via. Diario DIAC è qui anche per raccontare le cento o mille realtà e contaminazioni di questo tipo che, ci contiamo, sono in arrivo.