DIARIO POLITICO

L’incertezza come programma: l’Italia con i conti in ordine e la crescita ferma

Impossibile non partire da Gaza, dall’onda umana che ha attraversato le piazze italiane mentre il mondo trattiene il fiato in attesa di capire che fine farà la proposta di pace americana firmata Donald Trump. La politica internazionale continua a dettare i tempi e occupare gli spazi dell’informazione, mentre sul fronte interno si fa fatica perfino a intravedere che cosa accadrà da qui alla fine dell’anno.

Si attende la legge di Bilancio, ma le prospettive restano plumbee. Tutti danno per scontata la riduzione dell’aliquota Irpef dal 35 al 33% per i redditi fino a 50mila euro: uno “sconto” che vale poco più di 400 euro l’anno, circa 36 al mese. Troppo poco per invertire la rotta della contrazione dei consumi, certificata anche dagli ultimi dati Istat.

06 Ott 2025 di Pol Diac

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Sul fronte degli investimenti, poi, si naviga a vista. Il Pnrr è ormai ai titoli di coda, gli incentivi alle imprese (Zes, Industria 4.0 e 5.0) sono esauriti e i nuovi dazi – l’ultima bordata da Washington è un aumento al 107% per la pasta italiana – alimentano il pessimismo tra i produttori che  lamentano però soprattutto l’assenza di una strategia chiara da parte del governo.

La stilettata del presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, al ministro dell’Economia Giorgetti è eloquente: «Mi fa piacere che arriviamo sotto il 3%, però a noi non serve un ministro della copertina più bella d’Europa». Il riferimento è alla rivendicazione di Giorgetti sul positivo andamento dei conti pubblici e sull’uscita anticipata dalla procedura per deficit eccessivo. Ma la verità è semplice: la crescita non c’è.

Come già scritto su queste colonne, il tendenziale e il programmatico si equivalgono. Segno che nemmeno il governo crede davvero nelle misure che sta per varare. La manovra ruoterà attorno a 16 miliardi – dieci di tagli e sei di maggiori entrate – e, come l’anno scorso, le banche saranno chiamate a dare un “contributo” per finanziare parte del taglio dell’Irpef o della nuova cartolarizzazione delle cartelle esattoriali annunciata da Matteo Salvini. Misure di corto, anzi cortissimo respiro, mentre resta irrisolto il nodo delle garanzie sui prestiti alle imprese, che alimenta ulteriormente l’incertezza.

Ed è proprio l’incertezza la vera protagonista: la variabile che si è fatta costante. Il governo Meloni si muove nel solco dei suoi predecessori – politici o tecnici che fossero: dal taglio del costo del lavoro, agli incentivi alle imprese, all’attenzione per i conti pubblici riconosciuta – va sottolineato – dai mercati e dalle agenzie di rating. Riconoscimento,  però, e anche questo va puntualizzato, legato  non alle prospettive  di rilancio del Paese bensì alla maggiore affidabilità garantita dalla stabilità politica dell’attuale governo. Che certo ha un valore– basti pensare alla riduzione dello spread e del costo del debito –  tuttavia non basta a guardare con ottimismo al futuro, né nel breve né nel medio periodo. Anche perché di alternative non se ne vedono.

Le centinaia di migliaia di persone scese in piazza in questi giorni per dire “basta” al massacro di Gaza non rappresentano un’area politica, né tantomeno una proposta di governo. Il campo progressista, diviso su tutto, non offre una piattaforma economica comune – dal Green Deal alla difesa europea – su cui costruire consenso.

Ma non è una novità. A tenere insieme il centrosinistra, nelle sue infinite varianti, più che una visione del Paese è sempre stato l’avversario di turno: ieri Berlusconi, oggi Meloni. Un collante che però non paga  più, come dimostrano anche gli ultimi test regionali.

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