L'EREDITA' DEL SUPERBONUS E LA RIQUALIFICAZIONE ENERGETICA
Incentivo diabolico? Le colpe sono di chi lo ha amministrato e della ROVINOSA exit strategy
I critici del superbonus (quasi tutti col senno del poi) hanno fatto a gara a trovarne le colpe più diaboliche, omettendo però di riconoscere che gran parte dei guasti che ne sono derivati sono da ricondurre più ai difetti nell’amministrazione dello strumento, che allo strumento in sé, concepito per fornire una risposta straordinaria a una situazione straordinaria.
Ora la confusione regna sovrana.
Le direttive comunitarie che dovrebbero indicare una strada attraverso i decenni vengono rinegoziate, approvate, disconosciute e infine demonizzate. Le strategie nazionali, aggiornate ogni pochi anni, sembrano esercizi contabili destinati a restare lettera morta.

Le misure di stimolo – strumenti operativi per l’attuazione delle strategie – seguono logiche che poco hanno a che fare con i criteri della razionalità, più finalizzate come sono a raccogliere consensi che a perseguire obiettivi.
L’azione amministrativa, lontana dall’efficienza, mostra ritardi inspiegabili e omissioni sorprendenti nella predisposizione di strumenti di monitoraggio e di controllo.
Il dibattito politico evita l’analisi costi-benefici e si limita a rinfacciare responsabilità agli avversari.
Il risultato è sconfortante: incertezza su tutto, informazione adulterata, impossibilità di fare impresa che non sia precaria o predatoria, spreco di risorse, speculazione selvaggia, diffidenza crescente dei cittadini. Caos e immobilismo.
Chiusa la stagione dei super-incentivi con l’ennesima mossa a sorpresa, inutile per l’aggiustamento dei conti pubblici, dannosa per le famiglie e gli operatori coinvolti, deleteria per la reputazione del debito pubblico, insidiosa per la certezza del diritto, oggi la legislazione vigente pone cittadini e imprese di fronte al deserto incentivante.
L’impatto sulla domanda di interventi è eclatante e si farà osservare nelle rilevazioni di PIL, occupazione e cassa integrazione dei prossimi mesi. Ci ricorda che l’efficienza energetica degli edifici non si attiva spontaneamente.
Chi sostiene che si tratti di un rimbalzo fisiologico post-sbornia da bonus non percepisce la profondità del fenomeno. La grave depressione del settore che si prospetta è di lungo periodo, in contrasto con qualunque profilo di decarbonizzazione, anche il più cauto immaginabile.
Questo è il tunnel in cui l’efficienza energetica degli edifici si è infilata, complici la sua complessità tecnica, l’entità degli investimenti necessari, la difficoltà della classe politica di concentrarsi su obiettivi di lungo periodo e di valutare le conseguenze pratiche dei provvedimenti e anche, a mio modesto parere, una robusta dose di strumentalizzazione che poco ha a che fare con il bene della collettività.
Come se ne esce? Come si recupera in vita la transizione del settore, senza il superbonus?
Il superbonus, nato come risposta all’emergenza pandemica, straordinaria e temporanea fino al 2021, ha tardato più di un anno ad avviarsi per via dell’implicazione della responsabilità per le irregolarità edilizie. Trovata una soluzione a questo impedimento (con l’espediente della CILA-S, anch’esso emergenziale) a pochi mesi dalla sua scadenza, la detrazione al 110% è stata prorogata fino al 2023 e, con una riduzione progressiva pianificata al 65%, fino al 2025.
Deroga del regime di responsabilità, detrazione elevata, facoltà di cessione e durata limitata sono tutti fattori che hanno infiammato la domanda ben oltre la dimensione stimata dalla Ragioneria dello Stato. I Governi che si sono succeduti, anziché frenare la domanda ponendo limiti all’accesso all’incentivo (opzione che sarebbe stata impopolare), hanno preferito ostacolare la circolazione dei crediti perturbando pesantemente il mercato che si era organizzato e generando una grave crisi di liquidità degli operatori che, a sua volta, ha causato blocco dei cantieri, ritardi, insolvenze, speculazione finanziaria, fino all’attuale annichilimento delle attività del settore.
I critici del superbonus (quasi tutti col senno del poi) hanno fatto a gara a trovarne le colpe più diaboliche, omettendo però di riconoscere che gran parte dei guasti che ne sono derivati sono da ricondurre più ai difetti nell’amministrazione dello strumento, che allo strumento in sé, concepito – lo si ripete – per fornire una risposta straordinaria a una situazione straordinaria.
Non pochi sono i pregi della misura di stimolo, oltre a quello dell’immediato trascinamento del PIL che sarebbe stato impossibile ottenere con i più convenzionali strumenti della spesa pubblica: dall’avvio di un processo diffuso di efficientamento che (nonostante le minimizzazioni dei censori) ha riguardato una quantità sbalorditiva di edifici e uno sforzo organizzativo titanico della filiera; alla trasferibilità dei benefici fiscali che ha reso l’incentivo accessibile a strati di popolazione e ad ambiti sociali che ne erano sempre stati esclusi (in contrasto con la narrazione ricorrente di un prevalente utilizzo da parte dei più abbienti, che ricorre alla suggestiva evocazione degli otto castelli ristrutturati ma che non è supportata da alcun dato), alla diffusione nella popolazione della consapevolezza della praticabilità dell’efficienza energetica, al rapido sviluppo di competenze professionali, agli importanti investimenti in capacità produttiva e in innovazione.
I difetti che possono essergli attribuiti (scarsa selettività degli interventi e scarsissima attenzione al controllo dei prezzi) sono conseguenze del carattere emergenziale della misura e possono essere facilmente corretti, mentre i più gravi (impatto esorbitante sulla spesa pubblica, eccessiva pressione sull’offerta) sono ascrivibili alla scriteriata proroga “tal quale” (salvo il décalage) sostenuta dall’intero arco parlamentare e alla sconcertante assenza di strumenti di monitoraggio e controllo.
Bene, dunque, che si sia giunti alla fine della corsa. Pessimo invece il modo con cui ci si è arrivati: il treno avrebbe rallentato comunque, col passaggio dal 110 al 70%, anche senza farlo deragliare. E si è persa l’occasione di misurare sul campo l’elasticità della domanda in funzione del décalage, in costanza della facoltà di cessione, privando di un’informazione essenziale chi dovrà scrivere le nuove regole. Perché, se si vuole riattivare l’efficientamento degli edifici, nuove regole sono necessarie.
Ma, innanzitutto: è importante l’efficienza energetica degli edifici? Stando ad alcuni sondaggi (ECCO e Renovate Italy), si direbbe che esista una consapevolezza trasversale – a geometria variabile a seconda delle tendenze politiche – dell’importanza dell’efficienza energetica in rapporto alle sue implicazioni ambientali, sociali, sanitarie ed economiche.
Positivo è il recente annuncio del Ministro dell’Ambiente dell’intenzione di costituire un “Consiglio Scientifico Clima e Ambiente”, un «luogo deputato a un confronto istituzionalizzato fra politica e mondo scientifico». Un passaggio coerente con l’accordo preelettorale trasversale (The Venice Dialogue) con cui tutte le famiglie politiche europee – con la sola esclusione di quella di estrema destra – si sono impegnate a fronteggiare la crisi ambientale, raggiungendo gli «obiettivi di decarbonizzazione e di tutela della biodiversità che la ricerca scientifica ha individuato».
Entro giugno è attesa la versione definitiva del PNIEC con l’indicazione degli obiettivi di riduzione di consumi ed emissioni e delle misure di stimolo e accompagnamento. Entro il 2025 dovrà essere predisposto il Piano nazionale di ristrutturazione degli edifici.
Un tavolo di lavoro interministeriale è stato attivato un anno fa, con l’obiettivo di individuare «proposte concrete e condivise per il raggiungimento degli sfidanti obiettivi di efficienza energetica». Elaborazione di un quadro conoscitivo del parco immobiliare nazionale, individuazione delle misure necessarie per conseguire gli obiettivi fissati, valutazione dell’impatto energetico, emissivo ed economico, in modo da garantire una transizione energetica equilibrata in grado di ottimizzare il rapporto tra costi e benefici per la collettività e per lo Stato. Questi gli obiettivi del tavolo, i cui lavori avrebbero dovuto essere conclusi entro maggio, ma da cui fino a oggi nulla è trapelato.
Lo stesso regime di segretezza, che rammenta il Progetto Manhattan, avvolge i dati raccolti da Enea sugli interventi realizzati col superbonus. Ed è un vero peccato, perché si tratta di una miniera che, se aperta alla ricerca, potrebbe aiutare non poco a ragionare sul futuro.
Contemporaneamente il Governo afferma che «non vi è alcuna intenzione di anticipare il recepimento della direttiva Case Green, avendo essa come termine il 2026. Anche perché nutriamo l’auspicio di poter riaprire il dossier, in seno ad una rinnovata Commissione Ue».
Vedremo quale sarà il nuovo reale orientamento dopo la consultazione elettorale, ma è chiaro che l’eventuale riapertura del dossier comporterebbe uno stop di almeno un paio d’anni, oltre a quelli necessari per il recepimento della direttiva, mutando rapidamente l’attuale modesto anticipo rispetto all’obiettivo EPBD 2030 (dovuto al superbonus) a un grave ritardo. Non proprio in sintonia con l’urgenza della decarbonizzazione e della tutela della natura riconosciuta da (quasi) tutti i partiti.
Quali prospettive ha il settore? È condannato alla stagnazione o (e potrebbe succedere, “a legislazione vigente”) all’estinzione e alla dilapidazione degli investimenti e delle competenze acquisiti in questi anni di super-attività? O si tratta solo di una pausa di riflessione pesantemente condizionata dal gioco della campagna elettorale?
Per cercare di infrangere questo silenzio, Rete IRENE prova a riavviare il dialogo e lo fa proponendo un quadro metodologico e un nuovo schema di incentivazione.
Quel che occorre è un nuovo strumento di sostegno razionale, messo a fuoco sugli obiettivi che saranno descritti nel PNIEC. Poiché la finalità della misura è il raggiungimento degli obiettivi di riduzione di consumi di energia ed emissioni climalteranti – in consonanza, peraltro, con il consolidamento di un settore strategico labour intensive e prevalentemente interno – non bisogna mai dimenticare che essa deve essere efficace nell’attivare la domanda con intensità sufficiente a contrastare il fallimento del mercato.
Efficienza nell’investimento delle risorse, sostenibilità in relazione alla spesa pubblica, equità nella distribuzione dei benefici, stabilità e prevedibilità: queste le parole chiave che dovrebbero definire un nuovo strumento capace di indirizzare le risorse disponibili verso la realizzazione di ciò che maggiormente soddisfa l’interesse collettivo e di canalizzarle dove più occorre, attivando livelli adeguati di domanda e di coinvolgimento della finanza privata.
Quali criteri, quali requisiti, quali accortezze adottare, per evitare vecchi e nuovi errori?
Molti sono i suggerimenti che possono essere offerti ai decisori. Una accorta selezione degli interventi da incentivare in relazione all’interesse collettivo alla loro realizzazione, affidata a un’accurata definizione del loro perimetro tecnico, può assicurare l’efficienza del sistema. La definizione di livelli diversificati di intensità (in funzione di requisiti d’ingresso e di miglioramento ben ragionati) consente di ottimizzare l’addizionalità dell’incentivo.
L’incrocio di elevati e razionali standard di efficienza e di sufficienti livelli di efficacia richiede un’adeguata segmentazione degli edifici secondo criteri climatici e sismici oltre che in classi che rispondono a logiche tecniche, economiche e sociali omogenee. Ciascun cluster dovrebbe essere oggetto di specifiche valutazioni in ordine ai requisiti di ingresso, all’intensità di incentivazione e all’imposizione di eventuali obblighi di prestazione energetica.
Un approccio pluri-obiettivo, che premia le attività che abbracciano diversi ambiti di intervento e non solo quello energetico, ha il vantaggio di ridurre i costi marginali e di accelerare l’avvicinamento ad altri obiettivi non meno importanti sul piano ambientale e sociale.
Poiché sembra poco plausibile che si possano abbandonare le detrazioni fiscali in favore dell’incentivazione diretta (da sempre osteggiata dal MEF per buoni motivi di ordine pratico), cruciale è la fissazione di adeguati criteri di accesso alle opzioni alternative alla fruizione diretta, il vero fattore abilitante della vasta domanda di interventi di questi anni, oltre che fondamentale, irrinunciabile e riconosciuto elemento di equità sociale.
I limiti reddituali sono importanti, ma devono fare i conti con le dinamiche di formazione del consenso nelle assemblee condominiali.
L’aggiornamento dei parametri consente di regolare periodicamente (sempre in logica futura e ampiamente preannunciata) la dimensione della domanda di interventi, che dovrebbe essere stabilmente sostenuta fino al raggiungimento del traguardo, adattandosi alle mutazioni che si manifesteranno nel lungo periodo.
Naturalmente, la quantificazione e l’individuazione delle risorse necessarie non è prerogativa di chi scrive, ma sembra utile suggerire che il computo tenga in adeguato conto anche gli effetti indotti positivi.
Questi sono alcuni spunti che ci sembrano utili per riavviare un dibattito serio e qualificato. E occorre farlo presto, se l’obiettivo non è quello di seppellire il PNIEC e i suoi obiettivi.
Virginio Trivella