Il Ddl Calderoli sui livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e il governo del territorio. Le difficoltà dell’autonomia differenziata

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n.194 del 2024, che ha minato le basi della legge Calderoli n.86/2024, il governo ha approvato, il 19 maggio 2025, un nuovo disegno di legge, che possiamo definire Calderoli bis, il quale contiene i principi di delega al governo per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali.

Il disegno di legge delega, appena trasmesso alle Camere per l’iter di approvazione, si divide in due parti: la prima, relativa ai principi generali e, la seconda, dedicata a “settori (più o meno, n.d.r.) organici” di materie da cui il governo, sulla base dei criteri della delega, dovrebbe ricavare “le funzioni” oggetto di possibile trasferimento alle regioni nel percorso di autonomia differenziata basato su intese ed i relativi l.e.p.  da queste invalicabili. (…)

06 Ott 2025 di Pierluigi Mantini

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Un disegno che appare un  frutto dichiarato della necessità di fornire una qualche sostenibile risposta, sul piano politico, alle censure della Corte “salvando il salvabile” dell’impianto della legge n.86 del 2024.

Un disegno che riporta (ragionevolmente) su base normativa l’individuazione dei l.e.p., in precedenza affidata a improbabili parametri socio-economici, non nascondendo la velleitaria ambizione di una rivisitazione dell’intero, sterminato, corpus legislativo italiano nell’intento di “ingessare”, hic et nunc et per semper, l’evoluzione della legislazione italiana in materia dei livelli essenziali delle prestazioni in tema di diritti civili e sociali.

Un’intento velleitario e assai ambizioso di riscrittura, una volta per tutte, dei confini legislativi dei poteri dello Stato e delle Regioni nell’ordinamento costituzionale nazionale, un’opera ciclopica degna del miglior Giustiniano, chiaramente irrealizzabile nei tempi dell’attuale legislatura e anche inutile e pericolosa perché i tempi e le necessità evolvono e certamente non è una buona idea pensare di cristallizzare ad oggi i livelli essenziali delle prestazioni dovute, a tutti i cittadini della Nazione, in tema di diritti civili e sociali.

Può apparire banale ma è evidente che ciò che è l.e.p. oggi potrebbe non esserlo domani, e viceversa.

D’ altronde, una tale “ingessatura” dei poteri legislativi costituirebbe in sé un grave vulnus assai grave della stessa funzione legislativa oltre che una fonte permanente di conflitti di attribuzione e dunque di incertezza legislativa e di confusione.

Al di là dei molti rilievi possibili sotto il profilo tecnico legislativo, è agevole rilevare che gli stessi  (ottimistici) termini indicati, ossia 9 mesi per l’esercizio della delega da parte del governo, più 18 mesi per i decreti correttivi, cui vanno ovviamente aggiunti i tempi (lunghi) per l’esame e l’ approvazione della legge delega in parlamento, peraltro con manifestate divisioni sia all’ interno delle forze di governo e sia negli orientamenti di Camera e Senato, per poter concludere che il disegno di legge altro non è che una dignitosa risposta politica alle illegittimità rilevate dalla Corte costituzionale.

Le considerazioni generali appena accennate, peraltro suffragate dal dibattito in corso nella dottrina giuspubblicistica, devono ora essere più attentamente riferite ai principi della legge delega relativi al governo del territorio.

Consideriamo in primo luogo i l.e.p. in materia di pianificazione urbanistica previsti dall’art.24 del disegno di legge delega Calderoli bis.

È stabilito che per le specifiche funzioni disciplinate dalla normativa vigente con riferimento alla pianificazione urbanistica e paesaggistica, al fine di tutelare l’ordinato assetto del territorio e l’ordinato esercizio delle attività di trasformazione dei suoli, a favore di tutta la popolazione, il Governo esercita la delega determinando le misure atte a garantire:

  1. a) la redazione, da parte dello Stato e delle Regioni[1], dei piani paesaggistici ovvero dei piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici ai fini della valorizzazione del paesaggio e della promozione della conoscenza del territorio, a favore di tutta la popolazione;
  2. b) la redazione, da parte delle Regioni, dei piani territoriali di coordinamento;
  3. c) la redazione, da parte dei Comuni, dei piani regolatori, volti ad indicare:

1) la rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili e dei relativi impianti;

2) la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona;

3) le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciali servitù;

4) le aree da riservare a edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale;

5) i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico;

6) le norme per l’attuazione del piano;

  1. d) la redazione, da parte dei Comuni sprovvisti di piano regolatore, di un programma di fabbricazione da includere nel proprio regolamento edilizio;
  2. e) la redazione con apposita procedura, da parte dei Comuni, dei piani particolareggiati di esecuzione del piano regolatore generale;
  3. f) la redazione, da parte dei Comuni, dei piani di lottizzazione e dei piani esecutivi convenzionati quale presupposto alla realizzazione di insediamenti edilizi;
  4. g) la redazione, da parte dei Comuni, dei piani per il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente, finalizzati a rimuovere situazioni di degrado e riqualificare il patrimonio edilizio-urbanistico esistente;
  5. h) nella pianificazione paesaggistica da parte delle Regioni e nello svolgimento delle attività di redazione dei piani, l’individuazione di un responsabile del procedimento, la garanzia della conclusione dello stesso entro il termine prefissato, la misurazione dei tempi effettivi di conclusione dello stesso e la garanzia dell’accesso alla documentazione amministrativa e la facoltà per i soggetti aventi titolo di presentare osservazioni.

Come si vede, si tratta di indicazioni del tutto generali e generiche, ricognitive delle principali funzioni previste dall’ ordinamento urbanistico.

Ma il disegno di legge delega Calderoli bis estrapola, in modo casuale e irragionevole, delle “funzioni” che potrebbero essere oggetto di trasferimento alle Regioni nel percorso dell’ autonomia differenziata.

Ed infatti il testo di legge stabilisce che “ ai fini di cui al comma 1 sono prese in considerazione, in particolare, le funzioni disciplinate dagli articoli 7, 9, 13, 14, 28 e 34 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, dall’articolo 1 del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, dall’articolo 28 della legge 5 agosto 1978, n. 457, dall’articolo 29, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, dall’articolo 1 del decreto legge 20 settembre 2015, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 novembre 41 2015, n. 182, dagli articoli 6, comma 1, 131, comma 5, 135, 143, 144 e 145 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.”

Ma perché queste funzioni e non altre? Cosa c’entra con la pianificazione urbanistica la disciplina delle parziali difformità dal permesso di costruire?  E perché non è compreso nell’elenco l’art. 41 della legge 1150 del 1942 sui principi della densificazione ? O l’art.149 del decreto legislativo n.42 del 2004 sulle autorizzazioni paesaggistiche semplificate? E si potrebbe a lungo continuare a dimostrazione di un’assoluta casualità e arbitrarietà sia nella individuazione delle funzioni “ trasferibili” e sia nella determinazione dei criteri direttivi per la delega al governo sui l.e.p..

E nondimeno accade nel lungo articolo dedicato all’ attività edilizia ove addirittura troviamo un’ ambiziosa quanto sconclusionata rassegna di principi e criteri direttivi per la determinazione dei LEP relativi all’attività edilizia, che non è inutile considerare in concreto anche perché un tale metodo viene ripetuto, in sostanza, per tutte le materie legislative richiamate.

È dunque previsto che  per le specifiche funzioni disciplinate dalla normativa vigente con riferimento all’attività edilizia, il Governo esercita la delega determinando le misure atte a garantire:

  1. a) l’istituzione, da parte di tutti i comuni, di un ufficio denominato sportello unico per l’edilizia, punto di raccordo tra il privato e le amministrazioni, il quale rilascia i titoli abitativi a chi abbia titolo per richiederli e che cura tutti i rapporti fra il privato, l’amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all’intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA);
  2. b) la possibilità di svolgere una serie di interventi edilizi senza la necessità di richiedere autorizzazioni all’ente comunale o di depositare documenti, ferma restando la necessità di rispettare le normative di settore comunque incidenti sulla disciplina dell’attività edilizia;
  3. c) la possibilità di svolgere attività edilizie subordinate alla comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) ai Servizi unificati per l’edilizia (SUE), da parte di chiunque voglia effettuare interventi di manutenzione straordinaria che non hanno ad oggetto le parti strutturali dell’edificio, ovvero per quegli interventi edilizi non classificabili come edilizia libera e nemmeno soggetti a SCIA o a permesso di costruire;
  4. d) la possibilità di effettuare specifici interventi edilizi nelle aree sprovviste di pianificazione urbanistica;
  5. e) il rispetto del termine di conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire con l’adozione del provvedimento finale entro trenta giorni dalla formulazione della proposta di provvedimento;[2]
  6. f) la formazione del silenzio assenso nel caso di decorso del termine per il rilascio del permesso di costruire e in mancanza di diniego motivato da parte del responsabile del procedimento;
  7. g) la possibilità di realizzare interventi edilizi mediante la presentazione della SCIA ai SUE da chiunque intenda svolgere interventi aventi ad oggetto le parti strutturali dell’edificio;
  8. h) il rilascio del permesso di costruire convenzionato, necessario per realizzare specifici interventi edilizi, attraverso la sottoscrizione di una convenzione da parte dell’amministrazione pubblica e del soggetto privato attuatore;
  9. i) la possibilità di ricostruzione, nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti, in caso di demolizione e ricostruzione di edifici;
  10. l) il riconoscimento del diritto di tutti gli interessati di non essere destinatari di richieste di documenti, informazioni e dati già in possesso della p.a. ai fini del rilascio dei titoli edilizi;
  11. m) la riduzione o esonero del contributo di costruzione nel caso di edilizia convenzionata abitativa;
  12. n) la comunicazione al soggetto interessato, da parte dello sportello unico, del nominativo del responsabile unico del procedimento (RUP) avente ad oggetto il permesso di costruire, entro dieci giorni dalla domanda;
  13. o) la formulazione da parte del RUP, entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda del permesso di costruire, di una proposta di provvedimento su tale domanda;
  14. p) la facoltà dell’interessato di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi di cui al capo III del DPR n. 380/2001, senza obbligo del pagamento del contributo di costruzione di cui all’articolo 16 del medesimo DPR; q) il riconoscimento del diritto del soggetto interessato di richiedere l’acquisizione allo sportello unico di tutti gli atti di assenso, nel caso di applicazione del regime SCIA;
  15. r) il riconoscimento del diritto all’utilizzazione temporanea di edifici ed aree sia di proprietà privata sia di proprietà pubblica per usi diversi da quelli consentiti e che rispondano a finalità di interesse pubblico o generale;
  16. s) la possibilità di apportare modifiche esecutive al di fuori del rispetto delle misure progettuali contenute nel titolo abilitativo, nei limiti del 2%;
  17. t) il rilascio, da parte del responsabile del competente ufficio comunale, del permesso in sanatoria e conclusione del procedimento entro sessanta giorni dalla richiesta;
  18. u) la facoltà di sopraelevazione di un piano negli edifici in muratura già esistenti, dietro certificazione dell’ufficio tecnico regionale competente, il quale deve certificarne la sicurezza strutturale;
  19. v) il rilascio del permesso di costruire da parte del SUE, ove necessario ad eseguire gli interventi di nuova costruzione, ristrutturazione urbanistica e ristrutturazione edilizia con modifiche rilevanti dell’unità immobiliare, a chiunque abbia titolo per richiederlo, in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.

Si passa quindi all’individuazione, sempre casuale e arbitraria, delle funzioni prevedendo che “sono prese in considerazione, in particolare, le funzioni disciplinate dagli articoli 2-bis, comma 1-ter, 5, comma 1, 6, 6-bis, 9, 9-bis, comma 1, da 10 a 13, 17, 20, commi 2, 3, 6 e 8, 22, 23-bis, 23 quater, 28-bis, 34-bis, 36 e 90 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al DPR 6 giugno 2001, n. 380, nonché, con riguardo alle funzioni indicati nelle lettere e), f), g), l), m) e n), dall’articolo 29, commi 2-bis e 2-ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241.”

Un elenco casuale, incompleto, anche illogico: perché, ad esempio, l’articolo 3 del Testo unico dell’edilizia, che reca la fondamentale definizione delle tipologie edilizie in Italia, da cui discendono i relativi regimi giuridici, non può essere un l.e.p.? Ogni regione potrà farsi il proprio? Perché, sempre ad esempio, l’articolo 15 T.u.e., che disciplina l’efficacia temporale e la decadenza del permesso di costruire, non può essere un l.e.p.: ogni regione dovrebbe stabilire le proprie regole, creando disparità tra i cittadini e complicazioni per gli operatori economici?

Perché non è compresa nell’ elenco la disciplina degli articoli 24-26 in tema di agibilità degli edifici? E perché sono assenti tra i possibili l.e.p. le norme sulla costruzione e la vigilanza in zone sismiche? E la recente legge n.40 del 2024 che reca i principi nazionali delle ricostruzioni post- calamità non dovrebbe essere un l.e.p. ? E si potrebbe davvero a lungo continuare ad interrogarsi sulla ragionevolezza e l’utilità di simili discriminazioni.

Si pensi poi, per concludere, al fatto che il disegno di legge delega Calderoli bis finisce per cristallizzare la disciplina degli standard nella concezione ragionieristica del decreto ministeriale del 1968 ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e di rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, quando la stessa legislazione regionale degli ultimi venti anni si è mossa nella più contemporanea direzione di standard reali o prestazionali con riferimento cioè alle esigenze concrete ( piani dei servizi ecc.).

In sostanza, come ci dimostra la disamina specifica della materia del governo del territorio, con conclusioni riferibili però a tutte le altre materie considerate “ l.e.p.”, il disegno di legge delega appare essere un’opera ciclopica tanto inutile quanto pericolosa, irrealizzabile nell’orizzonte temporale dell’ attuale legislatura e figlia di una visione totalitaria dell’autonomia differenziata, che dovrebbe invece essere attuata in via di eccezione alla ripartizione delle competenze legislative dell’art. 117 Costituzione, in grado di depotenziare le prerogative del parlamento e di ingessare i poteri legislativi determinando in modo rigido i confini dell’ assetto delle competenze a fronte di livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali necessariamente mobili e aperti al futuro.

Anche dalla disamina di temi e problemi del governo del territorio appare evidente la distanza che intercorre tra il percorso dell’ autonomia differenziata, i suoi esiti recenti e le necessità concrete del Paese.

Occorrerebbe invertire la direzione di marcia: non più poteri ai legislatori regionali ma maggiori principi unitari nazionali, regole certe, nella materia del governo del territorio come in altre, a partire dalle semplificazioni per tutte le amministrazioni pubbliche.

Nell’epoca della riduzione del consumo di nuovo suolo e delle semplificazioni amministrative, nel tempo della rigenerazione urbana e della messa in sicurezza del territorio, anche ai fini del governo dei cambiamenti climatici, occorre mutare la prospettiva dell’urbanistica di tradizione senza illudersi che sia sufficiente definire le cose nuove con le parole antiche. Occorre cambiare anche il modo di pensare ed usare le parole nuove.

L’urbanistica tradizionale, risalente alle esperienze del razionalismo americano del primo Novecento e in Italia alla legge fondamentale del 1942, basata sulla gerarchia dei piani, la disciplina vincolistica del territorio comunale, l’esproprio, gli standard ragionieristici, lo zoning rigido, in pratica, non esiste più. È stata nel tempo erosa dall’inevitabile stagione delle varianti, dalla monetizzazione degli standard, dalla nuova cultura della flessibilità delle destinazioni d’uso, dall’“urbanistica negoziata” ma soprattutto dal processo riformatore avviatosi in Italia a metà degli anni Novanta, anche per impulso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, con la necessità di trovare una soluzione ai privilegi della rendita urbana (non estranei alle inchieste di Tangentopoli) attraverso la perequazione, la compensazione, i trasferimenti e gli scambi di volumetrie, il piano di governo del territorio (in luogo del p.r.g.) ad impostazione “duale” e non vincolistico, standard reali o prestazionali (misurati con i servizi e non in metri quadrati), la flessibilità dei mutamenti di destinazione d’uso, una maggiore attenzione per i temi dell’ecologia urbana e della mobilità (smart cities).

Queste trasformazioni si sono affermate in prevalenza attraverso i legislatori regionali che hanno dato vita ad una stagione intensa, di due decenni, di riforme in assenza di principi nazionali.

I notevoli risultati prodotti, pur nella diversità dei modelli e nella faticosa eterogeneità delle regole, non può certo essere dispersa e costituisce anzi un patrimonio non rinunciabile.

E tuttavia l’attuale stagione della semplificazione, della rigenerazione e del P.N.R.R.., figlio quest’ultimo della volontà europea di rispondere alle grandi crisi economiche e sociali provocate dalla pandemia, dai cambiamenti climatici e dai gravi conflitti bellici, ci pongono dinanzi a nuove sfide, alla necessità di nuove trasformazioni, nella cultura, nelle regole, negli strumenti, nei comportamenti.

Avvertiamo con chiarezza che le soluzioni a queste sfide non possono essere solo l’automatico risultato della “competitività dei territori”, non possono essere lasciate solo nelle mani dei governatori e dei legislatori regionali, con il rischio di moltiplicare le leggi, complicare le procedure, aumentare i costi e forse anche le “caste” ma che deve esserci un filo comune, devono esserci principi ed azioni nazionali.

Se discutiamo in Europa (e a livello globale) di consumo di suolo zero nel 2050, di messa al bando dei motori inquinanti, di obblighi di riduzione dei consumi energetici degli edifici, di semplificazioni burocratiche per realizzare i progetti entro le milestone del P.N.R.R.,  l’attore principale non possono essere le Regioni e i comuni ma deve essere anche lo Stato nazionale, attraverso percorsi che coinvolgono tutti i livelli territoriali di governo.

D’altronde, l’urgenza di queste azioni, di queste politiche si aggiunge alle molte materie, di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117 Cost., che compongono il mosaico del governo del territorio: l’ordinamento civile in materia di proprietà ed espropriazioni, l’ecosistema e l’ambiente, i beni culturali, la concorrenza (nelle negoziazioni e nell’urbanistica “concorsuale”), il sistema delle sanzioni e della giustizia.

Non vi è dubbio che occorra liberare il futuro da molti detriti del passato e che siano utili principi nazionali e unitari dell’urbanistica in grado di accelerare le trasformazioni e garantire la coesione dei territori, delle sue leggi, dei livelli essenziali delle prestazioni economiche e sociali.

Questi principi possono essere largamente desunti dalle migliori esperienze consolidate nelle  stesse legislazioni regionali ma devono avere un respiro nazionale e unitario se si vuole essere protagonisti in Europa e con l’ Europa.

Non è conveniente alimentare nuovi conflitti riscrivendo, con mano incerta, i confini delle competenze legislative come sembra fare invece il disegno di legge delega Calderoli bis: occorrono invece soluzioni semplici nella scena affollata delle regole, ponendo i principi fondamentali dell’urbanistica, come l.e.p., nel titolo primo di un nuovo “testo unico dell’edilizia e dell’urbanistica”.

Questa è, da tempo, la nostra proposta: abolire l’antistorico trattino che separa l’urbanistica dall’edilizia, accorciare la distanza tra piano e progetto, unificare le norme legislative in un solo testo unico.

Occorrono principi unitari e nazionali, adeguati ai tempi, in grado di cucire gli ampi spazi riconosciuti ai legislatori regionali: in definitiva, la “nazione differenziata” è un ossimoro, la comunità nazionale è certamente plurale ma tende ad esaltare la sovranità e l’identità.

Il percorso di attuazione dell’autonomia differenziata tende, attraverso il cospicuo trasferimento di competenze legislative dal parlamento nazionale alle regioni, a costruire “sovranismi minori” che non sono evidentemente in grado di vincere le grandi sfide che abbiamo di fronte e neppure di garantire quell’idea rassicurante e simbolica di riconoscimento e di identità che, dinanzi alle incertezze e alle precarietà, è alla base del successo del nazionalismo populista contemporaneo [3].

In definitiva, l’Italia a sovranità differenziata è un paradosso pericoloso che indebolisce la Nazione, depotenzia il parlamento e ricerca, attraverso premierati altrettanto irrealizzabili, un assetto di autocrazie conflittuali in luogo della leale e più forte collaborazione tra le istituzioni.

[1] Può valutarsi di riferire tale obbligo di pianificazione alla pubblica amministrazione in genere (basterebbe eliminare il riferimento alle Regioni), atteso che l’articolo 135 pone l’obbligo del piano in capo sia allo Stato sia alla Regione. Valutare l’inserimento delle parole “dello Stato e” prima delle parole “delle Regioni”, atteso che l’articolo 135 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, al comma 1, afferma che “Lo Stato e le regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono. A tale fine le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, entrambi di seguito denominati: “piani paesaggistici”. L’elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143.”

[2] Si precisa che tale l.e.p. include anche quello già presente nella tabella elaborata dal Sottogruppo n. 3, laddove si faceva riferimento alla pianificazione paesaggistica in chiave, però, di valorizzazione del paesaggio. Secondo le istruzioni del Presidente Cassese, ‘prevarrebbe’ dunque questol.e.p. che presenta un contenuto più analitico, poiché contempla la pianificazione paesaggistica nella sua interezza. Al riguardo, pare opportuno inserire anche i riferimenti agli articoli 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio

[3] Sul tema, anche con riferimento alle tesi di Francis Fukuyama, v. CAMPI A., Il fantasma della nazione, Venezia, 2023, 160-161.

 

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