BANKITALIA SUI DAZI

Frena la crescita. Dalla meccanica al legno arredo: le imprese colpite

Nei giorni scorsi il governatore Panetta ha messo in guardia dagli effetti sull’economia che arriverebbero da dazi più elevati e da un prolungamento dell’incertezza che ormai da mesi domina sullo scenario globale. L’ultimo bollettino di Bankitalia approfondisce l’impatto sulle imprese italiane e sull’inflazione dell’eurozona e il deprezzamento del dollaro rispetto all’euro.

13 Lug 2025 di Maria Cristina Carlini

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Le ultime proiezioni macroeconomiche “assumono il mantenimento delle misure oggi in vigore, che sottrarrebbero mezzo punto percentuale alla crescita nell’area dell’euro tra il 2025 e il 2027, con effetti contenuti sull’inflazione. Dazi più elevati e un’incertezza prolungata sulle politiche commerciali determinerebbero effetti ben peggiori sulla crescita e potrebbero influenzare le dinamiche inflazionistiche”. Venerdì scorso  quando il Governatore della Banca d’Italia,  Fabio Panetta, pronunciava queste parole davanti all’assemblea dell’Abi, la lettera del presidente Usa Donald Trump era, verosimilmente, ormai per essere spedita a Bruxelles, il giorno successivo, alla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Mancavano poche ore, dunque, all’offensiva americana sui dazi paventata e annunciata  ma la cui portata era però ancora ignota: la doccia fredda  è arrivata con quella percentuale, il 30%, ben più alta di quella soglia sostenibile di cui aveva parlato là premier Giorgia Meloni.  Ed eco che quel 30% fa risuonare ancora più forte l’allarme su “quegli effetti ben peggiori” prospettati da Panetta.

Come se non bastasse lo scenario tratteggiato dal Bollettino di Bankitalia diffuso sempre venerdì.  Nel secondo trimestre, il principale segnale che si registra è quello di rallentamento dovuto all’incertezza dello scenario geopolitico globale che sta frenando il passo più sostenuto che si era avuto nei primi mesi del 2025.  All’inizio del 2025 il Pil italiano ha continuato a espandersi moderatamente. L’aumento del prodotto è stato dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente, sospinto sia dalla domanda interna sia, in misura minore, da quella estera netta. Un importante impulso è arrivato dall’incremento degli investimenti che ha interessato tutte le principali componenti, in particolare quella in macchinari e attrezzature  mentre l’espansione dei consumi, in linea con quella del trimestre precedente, è stata favorita dal recupero del potere d’acquisto; al rialzo della spesa in servizi si è contrapposta la flessione degli acquisti di beni durevoli, verosimilmente a causa dall’aumento dell’incertezza sulle prospettive dell’economia. Il valore aggiunto dell’industria in senso stretto si è ampliato dell’1,1 per cento, principalmente grazie al recupero della produzione nei settori energivori. L’attività è cresciuta in misura maggiore nelle costruzioni (1,4 per cento), in parte sospinta dall’attuazione delle opere connesse con il Pnrr. Al contrario, il valore aggiunto ha ristagnato nei servizi, frenato dalla flessione dei comparti legati al commercio e al turismo.

Ma poi l’orizzonte s’è rannuvolato . In base alle stime di Bankitalia, infatti, nel secondo trimestre del 2025 il prodotto è sì salito ancora ma con intensità minore rispetto al periodo precedente. Il valore aggiunto è cresciuto sia nell’industria sia nei servizi. L’espansione dei consumi è rimasta contenuta, come nei mesi precedenti, mentre quella degli investimenti si è affievolita dopo due trimestri particolarmente favorevoli. Nonostante il buon andamento dei servizi connessi con il turismo internazionale, in un contesto di notevole incertezza i dati sul commercio estero di beni indicano un contributo della domanda estera netta lievemente negativo.

La Banca d’Italia conferma, dunque,  proiezioni macroeconomiche pubblicate lo scorso giugno: il Pil aumenterà dello 0,6 per cento quest’anno, dello 0,8 il prossimo e dello 0,7 per cento nel 2027.  L’espansione dell’attività economica sarà trainata in prevalenza dai consumi, favoriti dalla ripresa del reddito disponibile reale. L’andamento degli investimenti risentirà della forte incertezza, ma beneficerà delle misure del PNRR e del graduale miglioramento delle condizioni di finanziamento. Le vendite all’estero saranno decisamente penalizzate dagli effetti dell’inasprimento delle politiche commerciali. Si valuta che i dazi sottrarranno alla crescita del PIL complessivamente circa 0,5 punti percentuali nel triennio 2025-27. Per  contro, un orientamento più espansivo della politica di bilancio a livello europeo, anche in connessione con gli annunci di incremento delle spese per la difesa, potrebbe avere un impatto positivo sulla crescita.

 

L’allarme delle imprese italiane

Subito dopo l’annuncio arrivato d Washington sabato,  immediata è stata la reazione del sistema produttivo nazionale. Quella  di Confindustria: il presidente Emanuele Orsini ha invitato a “mantenere tutti la calma e avere i nervi saldi. Non possiamo compromettere i nostri mercati finanziari”, rimarcando “una sgradevole volontà di trattare” da parte degli USA. Grande la preoccupazione della filiera del legno-arredo, che, ha ricordato il presidente della federazione  Claudio Feltrinelli, negli USA  ha il secondo mercato di export. “L’Europa tutta e il nostro Governo devono aver ben presente che non difendere le nostre imprese adesso potrebbe avere come conseguenza la desertificazione industriale del Vecchio Continente”, ha avvertito. Nel mirino dei dazi ci sono altri settori chiave dell’export come la meccanica, l’agroalimentare e la ceramica.

Il polso delle imprese italiane l’aveva tastato di recente la Banca d’Italia. L’ultimo bollettino contiene un focus specifico sulle opinioni delle aziende. “Le tensioni e la crescente incertezza che caratterizzano il contesto economico globale influenzano le valutazioni e le aspettative delle imprese, con effetti potenziali sulle decisioni di investimento e di occupazione, nonché sulle strategie commerciali”, sottolinea l’istituto centrale. I dati raccolti nell’ambito dell’Indagine sulle aspettative di inflazione e crescita, condotta trimestralmente dalla Banca d’Italia, forniscono dunque un quadro tempestivo e ricco di informazioni sulle valutazioni delle aziende in merito ai possibili impatti derivanti dalle politiche commerciali internazionali. Dopo il progressivo peggioramento, nel 2024, dei giudizi sugli ordini totali e su quelli dall’estero, le imprese manifatturiere e dei servizi hanno segnalato un miglioramento delle proprie opinioni sia nel primo sia nel secondo trimestre dell’anno in corso. All’inizio dell’anno le indicazioni più favorevoli erano pervenute dalle aziende esportatrici, in particolare da quelle orientate verso il mercato tedesco e in misura minore verso gli altri paesi dell’area dell’euro; tuttavia anche le imprese che di norma esportano verso gli Stati Uniti avevano riportato un incremento degli ordinativi dall’estero, riconducibile plausibilmente a fenomeni di anticipazione delle vendite in previsione del possibile inasprimento dei dazi. Nel secondo trimestre il miglioramento si è confermato tra le imprese esposte verso l’area dell’euro – con una spinta ancora rilevante verso il mercato tedesco – mentre le valutazioni delle imprese orientate verso gli Stati Uniti si sono marcatamente deteriorate. Circa il 30 per cento delle aziende manifatturiere ha riferito un calo della domanda attribuibile – per via diretta o indiretta (attraverso la domanda da parte di clienti di paesi terzi inseriti nelle catene globali del valore) – all’introduzione di dazi da parte degli Stati Uniti. Tale quota si riduce a circa il 10 per cento nel settore dei servizi, nei quali – contrariamente alla manifattura – gli effetti si manifesterebbero in larga parte per via indiretta. Poco meno della metà delle imprese intervistate nel primo trimestre prevedeva un impatto avverso dei dazi sulle proprie vendite negli Stati Uniti nel complesso del 2025: la percentuale era quasi dell’80 per cento tra quelle per le quali tale mercato rappresenta la principale destinazione delle esportazioni. Circa un quinto delle aziende anticipava inoltre una revisione al ribasso dei piani di investimento per effetto delle politiche commerciali restrittive degli Stati Uniti. Infine, secondo l’ultima indagine condotta nei mesi di maggio e giugno, circa il 30 per cento delle imprese si attendeva un aumento dell’offerta di prodotti cinesi sui propri mercati di vendita, quale effetto indiretto delle recenti tensioni commerciali internazionali, con una conseguente intensificazione della concorrenza sui mercati europei e una pressione verso il basso per i propri listini di vendita.

Gli effetti delle tensioni commerciali tra USA e Cina sull’inflazione dell’eurozona, le mosse del Dragone sull’Europa

Un altro scenario approfondito dalla Banca d’Italia è quello relativo agli effetti delle tensioni commerciali tra USA e Cina sui prezzi al consumo nell’area dell’euro e sulle mosse che il Dragone compirà sul mercato europeo. I dazi influenzano i prezzi al consumo in modo eterogeneo, spiega l’istituto centrale. Nei paesi che li impongono i prezzi sono spinti al rialzo, poiché i produttori esteri tendono a trasferire sui consumatori – in misura completa o parziale – l’onere dell’imposta e i produttori nazionali possono dover sostenere costi superiori per i beni intermedi importati. Nei paesi che li subiscono le esportazioni si riducono e l’attività economica si indebolisce, generando spinte disinflazionistiche. Pressioni al ribasso sui prezzi al consumo potrebbero derivare anche da un minore costo delle materie prime – per il rallentamento del commercio globale – e dal freno agli investimenti indotto dall’aumento dell’incertezza. Ulteriori conseguenze possono scaturire dal reindirizzamento dei flussi del commercio globale. In particolare, a fronte del rialzo dei dazi imposto dagli Stati Uniti dallo scorso aprile, la Cina potrebbe riorientare le proprie esportazioni verso i mercati europei, adottando politiche di prezzo più aggressive. Già dal 2022 i prezzi dei beni provenienti dalla Cina sono scesi sensibilmente , anche a causa del deprezzamento del renminbi. Se questo andamento si dovesse accentuare, gli effetti sull’area dell’euro potrebbero non essere trascurabili, tenuto conto che i beni cinesi rappresentano circa un quinto del totale delle importazioni dai paesi fuori dall’area (400 miliardi di euro). L’effetto sull’inflazione al consumo nell’area dell’euro dipenderebbe da tre elementi: l’entità delle maggiori esportazioni cinesi destinate all’area; la risposta dei prezzi all’importazione delle merci cinesi; la reazione dei prezzi al consumo alla variazione di quelli all’importazione dalla Cina. Secondo recenti stime, un aumento dei dazi statunitensi nei confronti della Cina di entità pari a quanto prefigurato a maggio potrebbe tradursi in un incremento delle esportazioni cinesi verso l’area di circa 10 miliardi di euro; i prezzi dei beni cinesi importati si ridurrebbero di circa il 2,5 per cento. I prezzi al consumo dei beni industriali non energetici nell’area scenderebbero di circa lo 0,3 per cento su un orizzonte di due anni5. L’effetto finale sarebbe una riduzione dell’inflazione complessiva di circa 0,1 punti percentuali nel biennio.

Dazi e deprezzamento dollaro-euro

C’è un altro tema caldo al centro dell’attenzione dei mercati e degli operatori: il deprezzamento del dollaro. A seguito dell’annuncio dell’inasprimento dei dazi da parte degli Stati Uniti lo scorso 2 aprile, il dollaro statunitense si è deprezzato rispetto alle principali valute (dollaro canadese, euro, franco svizzero, sterlina britannica, yen giapponese). Tale dinamica, sottolinea Bankitalia, rappresenta un’inversione di tendenza rispetto al passato: generalmente nei periodi di elevata incertezza si osservava un apprezzamento del dollaro, favorito dalla propensione degli investitori a orientarsi verso attività e valute percepite come sicure. Negliultimi anni il cambio euro-dollaro ha mostrato un’elevata correlazione positiva con il differenziale dei rendimenti sui titoli sovrani a medio termine. Al contrario, nei giorni immediatamente successivi al 2 aprile, il dollaro si è deprezzato in misura nettamente superiore a quanto giustificato dal differenziale dei tassi di interesse tra l’area dell’euro e gli Stati Uniti. L’allentamento delle tensioni commerciali in maggio ha determinato un lieve apprezzamento del dollaro, non sufficiente tuttavia a riportarlo in linea con l’andamento relativo dei tassi di interesse. Più in generale si è apprezzato il tasso di cambio effettivo nominale dell’euro, a conferma di un rafforzamento generalizzato della moneta unica anche nei confronti delle altre valute tradizionalmente considerate sicure, come la sterlina britannica o lo yen giapponese. Il recente andamento del tasso di cambio euro-dollaro potrebbe segnalare un aumento persistente della rischiosità percepita dagli investitori sui titoli degli Stati Uniti, in ragione delle perduranti tensioni commerciali e della maggiore incertezza sulle prospettive fiscali. Ciò avrebbe contribuito ad accrescere la diversificazione valutaria da parte degli investitori internazionali, con benefici, se pur limitati, per le attività denominate in euro. Le valutazioni dei mercati finanziari sui rischi relativi al tasso di cambio euro-dollaro si sono orientate in modo significativo verso un rafforzamento dell’euro. Dal 2 aprile il costo di protezione da un apprezzamento dell’euro rispetto al costo di assicurarsi contro un suo deprezzamento ha raggiunto valori storicamente elevati, che non si osservavano dal verificarsi dei momenti di tensione sui mercati finanziari del marzo 2020. Anche i posizionamenti netti degli investitori con finalità speculative nel mercato dei contratti futures hanno continuato a indicare attese di un rafforzamento dell’euro.

 

 

 

 

 

 

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