L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 18
L’architettura fascista è esistita: tanta produzione di buon livello, ma anche i segni contraddittori della monumentalità di regime. Critica sempre in affanno sul tema
Per apprezzare un’opera d’arte non è necessario conoscerne la storia. Rimaniamo affascinati da una tela di Botticelli anche se sappiamo poco e nulla del Rinascimento, del neoplatonismo, del tentativo di riforma dei costumi portato avanti dal Savonarola e dell’influenza che l’intollerante frate ebbe sui pittori fiorentini della sua epoca.
Lo stesso accade per gli edifici: non dobbiamo essere esperti di storia romana per ammirare il Pantheon o il Colosseo. Né dottori della chiesa per apprezzare il colonnato di Bernini che introduce a San Pietro. Qualche informazione non guasta, ma della maggior parte delle opere che ammiriamo sappiamo ben poco.

Luigi Prestinenza Puglisi
IN SINTESI
Per alcuni, addirittura, un’opera d’arte o di architettura, se vuole essere tale, deve parlare da sé. Essere apprezzabile senza l’ausilio di riferimenti storici di sorta che potrebbero travisarne la lettura. Una posizione estrema se pensiamo che noi, per primi, siamo assetati di conoscere le vicende che stanno dietro le grandi opere. Storie spesso romanzate ma che ci forniscono importanti chiavi interpretative.
Pensiamo per esempio a quanto siano stati importanti i romanzi su Michelangelo, quali Il tormento e l’estasi di Irving Stone, per farcelo maggiormente apprezzare (e travisare). O se avremmo la stessa ammirazione per Van Gogh se non conoscessimo la sua vita tormentata e la storia dell’orecchio mozzato. Infine, come giudicheremo le opere puriste, se non conoscessimo gli scritti e le polemiche di Le Corbusier e i 5 punti della nuova architettura?
Gli artisti lo sanno benissimo e, infatti, non esitano a raccontare la loro vita pubblicando autobiografie gonfiate, con episodi romanzati o inventati di sana pianta. Frank Lloyd Wright non esitava a falsificare le date, compresa quella di nascita, e a inventare episodi che lo rendessero indimenticabile, come un falso telegramma in cui i giapponesi si complimentavano con il progettista per la resistenza dell’Imperial Hotel al terremoto di Tokyo del 1923. Walter Gropius e la moglie Ise, oltre a inventare la mitologia del Bauhaus, si diedero fa fare per impedire l’uscita di scritti di Hannes Meyer che contraddicevano la loro versione dei fatti sulle vicende della scuola. Mentre, per giungere ai nostri giorni, non c’è architetto che non abbia pubblicato una autobiografia o promosso una biografia autorizzata: da Daniel Libeskind a Massimiliano Fuksas, da Richard Rogers a Norman Foster.
Per alcuni detrattori si tratta di gossip, pettegolezzi inutili. Cosa ci interessa sapere -sostengono – degli scontri tra Daniel Libeskind e Peter Eisenman o dei rapporti tra Massimiliano Fuksas e la forte figura materna? Le Corbusier è – continuano – un grande architetto indipendentemente dalle sue non sempre limpide vicende personali e Richard Neutra ha creato capolavori che prescindono dall’ignobile opportunismo che lo spinse a rubare i clienti all’amico, collega e benefattore Rudolf Schindler.
Ma è proprio così semplice?
Prendiamo per esempio le vicende di un architetto la cui bravura e importanza sono universalmente riconosciute: Mies van der Rohe. La sua biografia ci racconta che fu un pessimo uomo. Frustrato dalle umili origini, tanto che si cambiò il nome (da Mies che vuol dire miserabile a Mies van der Rohe che suggerisce un’ascendenza nobiliare olandese), si sposò per interesse e fu un pessimo padre che di fatto abbandonò le tre figlie e sfruttò l’amante, Lilly Reich, che oltretutto non volle con sé quando si trasferì negli Stati Uniti per lasciarla in Germania a custodire il suo archivio.
Fatti privati, si dirà, che poco hanno a che vedere con l’arte. Eppure uno studio approfondito su Lilly Reich dimostra che alcuni mobili che attribuiamo a Mies in realtà sono di mano della compagna, o comunque opera di entrambi. E, soprattutto, che la spazialità di capolavori attribuiti a Mies, e cioè il Padiglione di Barcellona e villa Tugendhat, sarebbe forse meglio attribuirla anche a Lilly Reich che la aveva sperimentata in alcuni precedenti allestimenti.
Ecco così che, grazie al gossip, emergono fatti nuovi che ci fanno vedere in luce diversa personaggi e architetture.
Dove la questione diventa particolarmente complessa, ma proprio per questo interessante, è quando in ballo ci sono le ideologie politiche. Possiamo porre così la domanda: un grande artista può avere una visione politica inaccettabile? È abbastanza recente la polemica che in Francia ha dilaniato la critica architettonica a proposito di studi ben documentati che hanno sostenuto che Le Corbusier fosse un fascista dichiarato, probabilmente con simpatie per il nazismo. Scoperta questa che ci fa vedere in una luce diversa i suoi progetti a scala territoriale, più autoritari di quello che sinora abbiamo voluto credere. E riconsiderare i giudizi dei situazionisti che già negli anni Cinquanta ritenevano fascista il suo modo di organizzare lo spazio e intruppare la gente.
Sul versante opposto si colloca la polemica su Luigi Moretti, forse il più importante architetto italiano del Novecento, fascista, poi fedele alla Repubblica di Salò e mai pentito o ricreduto. Posizione che gli è costata, nonostante la sua straordinaria bravura, una sostanziale emarginazione da parte della critica, soprattutto da parte di Bruno Zevi, di ascendenza ebraica, e di Manfredo Tafuri, comunista.
In generale, quando si deve affrontare il problema del fascismo e della sua produzione, la critica mostra gravi segni di affanno. Da un lato abbiamo una notevole produzione di buone architetture dovuta al fatto che il regime puntò sull’edilizia e sull’urbanistica, stimolò i migliori architetti dell’epoca e fu abbastanza tollerante da dare spazio sia a giovani innovatori che a vecchi tromboni. Dall’altro, abbiamo tutte le contraddizioni dei regimi autoritari. Il gusto per la monumentalità, la retorica, il servilismo, il cinismo, la corruzione, le grandi speculazioni edilizie fatte passare come opera di rinnovamento e civiltà.
Nonostante una letteratura scientifica oramai sterminata, i punti di vista che si registrano sull’argomento sono numerosi e divergenti: dalla stroncatura all’apprezzamento. Nel caso di Bruno Zevi, la stroncatura è così decisa che lo stesso critico, di fronte alle poche opere che considerava buone, dovette inventare l’escamotage dell’architettura fascista che è antifascista per rimarcare così che il fascismo non avesse potuto fare nulla di buono.
Mancava, tuttavia, un buon libro divulgativo sull’architettura del ventennio che raccontasse le vicende da vicino, facendoci ben conoscere protagonisti e storie personali. Ci facesse capire chi stava con chi. Come il regime si comportasse. Il ruolo di architetti quali Marcello Piacentini, mostrandoceli nei loro pregi e nei loro difetti (per esempio ricordandoci che Piacentini fosse corrotto e non esitasse a prendere mazzette sulla fornitura dei rivestimenti in marmo ma anche che fosse molto informato sull’architettura del suo tempo).
A scrivere il libro, dal titolo La costruzione del potere, è Gianni Biondillo, un architetto prestato oramai da tempo alla letteratura e con ottimi risultati, tanto che un suo volume precedente, Quello che non siamo stati, anch’esso dedicato agli architetti che operarono durante il fascismo, ha vinto nel 2024 il premio Bagutta.
Le 320 pagine de La costruzione del potere si leggono con grande piacere: evitano il gergo soporifero degli specialisti e permettono di dare un volto e una storia a tanti edifici che incontriamo nelle nostre città, soprattutto a Roma e Milano. Il libro pecca, però, a mio avviso, di un eccessivo innamoramento per gli architetti trattati e a volte cade nell’ agiografia. Dispetti, scorrettezze, cambio di casacche, corruzione, servilismo e colpi bassi in quegli anni non mancavano, come del resto non sono mancati prima e dopo. E spesso sono proprio questi episodi a darci le chiavi interpretative migliori. Per fare il salto occorreva ammettere che l’architettura fascista, diversamente da quanto sostiene il sottotitolo del libro “Perché l’architettura fascista non esiste”, è invece esistita, anche se è stata interpretata da ciascun talento creativo, e da altrettante mezze cartucce, in modo diverso.
Gianni Biondillo: La costruzione del potere. Perché l’architettura fascista non esiste, Marsilio, Venezia 2025. 19 euro.
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